Africo, tra ricordi lontani e nuovi riflessi di luce
Giornate così, da caminetto e libro suggeriscono ricordi, sollecitano immagini e situazioni che pensavi di avare rimosso
A volte, in giornate come questa, uggiose, scandite da una nebbia che confonde, mi lascio sopraffare da una strana angoscia, dal torpore, da un senso di immobilismo e claustrofobia che mi attanagliano. Giornate così, da caminetto e libro suggeriscono ricordi, sollecitano immagini e situazioni che pensavi di avare rimosso, così poco fa, non so perché e non so bene cosa me lo abbia suggerito, ho ripensato ad una serie di coincidenze e nel farlo mi sono detto “sarà la settimana del lamento day, o forse la settimana “Africo refrain”? non so, cercherò comunque di darmi una risposta.
Fatto stà che il tutto trova forse origine da una telefonata all’ora di pranzo con Gioacchino Criaco, forse è stata la sua voce o forse senza andare a ricercare fantasiose coincidenze, solo il colore plumbeo di un cielo coperto da nuvole cariche di pioggia che osservo attraverso i vetri della finestra. Ma facciamo un attimo il punto. Alcuni anni fa chiacchierando con un amico che non sentivo da tempo e che per telefono, dopo i convenevoli di rito, quelli che si fanno in automatico senza valutarne la reale necessità, ebbi modo di raccogliere il suo disappunto nei confronti di un suo collega di Africo. Parecchio contrariato il mio amico non lesinava critiche feroci al collega per alcune pretese a suo dire fuori luogo.
“Sai che ti dico, è proprio vero che “l’africotu” anche quando non ha bisogno di nulla, trova sempre qualcosa da chiederti”. In un primo momento, ad ascoltare quelle parole mi sembrò di risentire un ritornello diventato negli anni luogo comune. Certo, che l’africese sia personaggio particolare, sembra quasi un eufemismo, ma è pur vero che i luoghi comuni tante volte esistono anche per essere sfatati. Sollecitato dal discorso del mio amico, andai a riprendere, come fatto anche qualche giorno fa, “Africo” di Corrado Stajano e subito dopo anche uno scritto di Gioacchino Criaco, un appunto che avevo conservato in una cartella sul pc, un pezzo di qualche anno fa condiviso da un giornale online dal titolo, Viaggio nella Africo di "Anime Nere" a firma di Giuliano Santoro, dove tra le altre cose si parlava anche del volume di Stajano, ristampato da “Il Saggiatore” e tornato ormai da tempo nelle edicole. Nel suo pezzo Santoro parlava del lavoro di Stajano ma anche di tanto altro, ad esempio di situazioni e di persone, e tra queste parlava di Don Giovanni Stilo.
“Il prete – diceva Santoro - che condusse gli africoti dalla montagna al mare, quel prete amato dagli anticomunisti e vicino agli ambienti della massoneria, una figura che diventa simbolo del radicamento della nuova ‘Ndrangheta sul territorio”. Oltre alla figura di Don Stilo, nel racconto di Santoro c’era anche quella di Rocco Palamara, figlio di emigrati a Milano, che torna con nuove idee che parlano di ribellione. “Rocco - spiegava l’autore - subisce diverse minacce e suo cognato Turi Barbagallo viene pure ucciso. Ne Rocco ne il cognato diventano però eroi ufficiali dell’antimafia, e sapete perché, perché non hanno mai accettato di farsi vittime”.
Chiavi di lettura strettamente personali certo, ma nel pezzo si faceva cenno ad una Africo che cambia velocemente pelle, ancora legata a vecchie logiche criminali radicate nei codici e nei rituali di memoria antica, ma con un occhio attento al cambiamento. C’era poi una locride a tinte fosche che l’autore definiva luogo di incontro tra nuovi business, servizi segreti, neofascisti e potentati di governo. In chiusura, Giuliano Santoro dedicava un doveroso spazio ad Anime Nere, il romanzo di Gioacchino Criaco finito sui grandi schermi di tutto il mondo. «La storia di queste terre - conclude Santoro - non appartiene al folklore locale, estende reti economiche e criminali dappertutto, abbraccia flussi globali, ma soprattutto, i conflitti che l’hanno scossa e le vite che ancora la animano evocano temi universali». La realtà di Africo la conosco bene da tantissimo tempo. Ho conosciuto Don Giovanni Stilo verso la metà degli anni '80, ed in tempi assai più recenti anche Rocco Palamara in occasione di diversi appuntamenti culturali che abbiamo condiviso. Le storie di Rocco Palamara e Don Stilo le ho approfondite con un piacere doppio, perché la loro rilettura in chiave attuale sembra condensare il midollo di una terra amara, dura, scontrosa che in quella discesa frettolosa, in quella corsa precipitosa dalla montagna al mare si è portata dietro un bel pò di cose, le rocce taglienti dell’Apòscipo o quelle che trovi lungo i contrafforti dello Scapparone quando ti affacci verso lo ionio dando le spalle a monte Iòfri, Materazzelli e Montalto. Sono estremamente convinto di come il dna di questa gente si rintracci anche nell’orografia di questa terra, che il tempo ha modellato senza mai farla realmente cambiare nella sostanza. Non so se sia vero quello che sosteneva il mio amico, non so se l’africoto voglia comunque qualcosa anche quando non ci sarebbe bisogno di nulla, e poi si sa, in fondo c’è sempre bisogno di qualcosa. Africo è un piccolo mondo a parte, un angolo di Calabria assai particolare dove coesistono più anime, un luogo che se lo conosci con i tuoi occhi, senza i filtri del racconto, ti consegna il quadro complesso di un luogo borderline dove trovi di tutto, dove oltre al buio, c’è anche un’aura di luce che pochi raccontano. La luce è quella che si irradia da un ingegno fertile, da un’innata vena artistica che si manifesta nel canto come nella scrittura, nella musica come nello sport.
“Gli africoti odiano il mare - diceva Stajano, in quel lavoro finito di stampare nel ’79 - un mare quasi sull’uscio di casa, blu carico, con bordi celeste Madonna e striature vinose”. Oggi Africo, con quelle montagne alle spalle, ideale cordone ombelicale mai reciso, e quel mare sempre sull’uscio di casa, sempre blu carico con bordi celeste, è molto diversa da quella della fine degli anni ’70. Questo l’ho capito ormai da tempo, da quasi vent’anni, da quando, dopo i racconti delle cronache giudiziarie, delle faide, ho imparato a conoscere le poesie e la musica di Gianni Favasuli, la voce di Lucia Catanzariti, la penna di Rocco Palamara e quella ormai famosa di Gioacchino. Ho imparato tutto macinando chilometri, incrociando volti, ascoltando aneddoti, vivendo situazioni agli antipodi, ho imparato come, per capire quel luogo e la sua gente su cui si è scritto praticamente di tutto, ci voglia una grande pazienza, un’attenzione particolare, un occhio sgombro da preconcetti. Soprattutto ci vuole la possibilità di rileggerlo dal di dentro, senza abbandonarsi agli stereotipi e se vogliamo, giustamente anche senza sconti. Magari alla fine ti accorgerai che nella rilettura c’è tutto quello che è stato raccontato e magari anche qualcosa in più, quello che nessuno se non la tua esperienza, potrà mai raccontarti.