America’s Cup 2021, sfida commerciale vs sfida nobile e con tanta Play Station?

Per cercare di capire la storia di miliardari, di nobili e commercianti, di elettronica e anche di vela.

America’s Cup 2021, sfida commerciale vs sfida nobile e con tanta Play Station?

L’elettronica è salita a bordo delle barche dell’America’s Cup e tutto si gioca in pochi secondi. Una nuova generazione di velisti si va affermando, capaci di decisioni rapide e della necessaria sensibilità ed esperienza per stare sui foils, Perché si naviga con uno scafo ma “si sta” sui foils e a starci si impara sulle barche piccole. Vero Francesco? Ma c’è un altro protagonista oltre al velista. Tempi rapidi e il tempo è denaro. Un milione di secondi corrispondono a quasi 12 giorni di regata, mentre un miliardo di secondi corrisponde a 32 anni circa di regate. Questa è la differenza di grandezza, secondi, dollari, euro tra un milionario e un miliardario. Ecco perché i milionari fanno le regate di circolo o l’invernale di Punta Ala e, quando e se diventano miliardari, vanno a fare l’America’s Cup, corsa ogni tre o quattro anni. Quattro anni su trentadue è un ottavo del capitale del nostro miliardario, ma l’America’s Cup costa molto meno. Infatti 12 giorni per 60 milioni, che è un costo indicativo in euro/dollari, fanno un paio di anni circa e corrispondono solo a un sedicesimo del capitale del nostro miliardario. Chi non spenderebbe un sedicesimo del proprio capitale per una grande passione o per prendersi una grande soddisfazione, almeno una volta nella vita? La storia dell’America’s Cup è una lunga storia di amori e di tradimenti. In queste notti, quando ci emozioniamo per una bella partenza dei nostri campioni o incrociamo le dita per una raffica che accarezza la nostra barca preferita, dobbiamo immaginare che il trofeo più antico dello sport è, prima di tutto, una sfida tra sistemi organizzativi, anche quelli finanziari, i quali vanno poi a generare le barche che tanto divertono e fanno sognare. Un tempo l’America’s Cup era fatta da miliardari, eredi di imponenti imperi sulla terra, che giocavano ad una incruenta battaglia navale sui mari, giusto per il piacere di un applauso alla cena della premiazione nel loro esclusivissimo circolo velico e, magari, detenendo l’ America’s Cup, dimostravano anche la superiorità della propria nazione. Un “droghiere”, famoso per il tè, Lipton, poi diventato sir, tentò per ben cinque volte di prendersela, e siamo tra il 1899 e il 1930. Ma il tempo passa, il capitalismo si trasforma. Negli USA i grandi capitali vengono tassati, per cui addio ai grandi e costosi J class, quelle bellissime ibarche che troneggiano nelle fotografie in bianco e nero. Durante gli anni di crisi del ‘29 vennero varate, per la America’s Cup, forse le barche più costose. Dopo la seconda guerra mondiale si riparte ma con barche più piccole, i 12 metri Stazza Internazionale che, comunque, erano sempre lunghe 20 metri, ma la metà di un J Class. I nuovi milionari si mettono insieme, creano sindacati per difendere o per conquistare l’ America’s Cup e, un bel giorno, un campione di vela californiano, che fa anche il tappezziere, tale Dennis Conner, si mette a cercare aziende che gli permetteranno di vincere quattro volte l’America’s Cup. Qualcuno, nel 1983, dopo 132 anni, strappa l’America’s Cup agli americani e la porta in Australia. La televisione incomincia a mandare qualche timido filmato e ad attrarre i nuovi ricchi che, forti delle loro aziende alla conquista di nuovi mercati, scendono in campo riuniti in consorzi, vedi Azzurra, fortemente voluta dall’Avvocato Agnelli e altri. E’ la prima partecipazione Italiana all’America’s Cup. L’America’s Cup era diventata un impegno a tempo pieno per i team. Non basta più varare la barca l’anno precedente e correre, ci si prepara per tutti i tre o quatrtro anni prima, anche perché, nel frattempo, anni ‘70, un certo Bruno Troublé, timoniere senza molta fortuna di France, vede sempre più gente, da diverse parti del mondo, chiedere di partecipare all’America’s Cup. Chiama il suo amico modaiolo Louis e si inventano la Louis Vuitton Cup, la regata che selezionerà lo sfidante al detentore dell’America’s Cup, oggi divenuta Prada Cup e di cui Troublé ne è ancora il maggiordomo. I 12 Metri SI, sono troppo piccoli, si evolvono obiettivi e sistemi di ripresa televisiva, quindi largo agli IACC di 24 metri che riempono bene lo schermo televisivo e permettono riprese mozzafiato, capaci di far risaltare gli sponsor e tenere incollati gli italiani tutta notte alla televisione. Nel 1992 la barca si chiama Moro di Venezia e il miliardario Raull Gardini, lo sponsor Montedison. Raul era uno che l’America’s Cup la faceva da miliardario, con lo sponsor, ma per “passione italiana” con quell’incredibile presentazione del team a Venezia, sotto la regia di Zeffirelli. In questo pianeta appare, anche per la vela, una parola nuova, amata dalla finanza mondiale: globalizzazione, Ernesto Bertarelli, miliardario italo svizero, con Alinghi, ha un sogno: fare dell’America’s Cup un evento mondiale, come la Formula 1 e con la continuità di eventi e di team come la Formula 1. Prima però bisogna vincerla. Gli svizzeri, si sa, sono sempre stati mercenari nelle guerre e mai combattute a casa loro. Si prendono il cavallo vincente del momento, Russell Coutts, lo pagano bene e quello “ tradisce” il team neozelandese, detentore della America’s Cup e, al posto di difenderla, la vince per gli svizzeri. La conseguenza del grande “tradimento australe” è il momento del “tutti a bordo”, miliardari, banche, skipper, pool di sponsor. La squadra alpina del “Cervino” difende l’America’s Cup …a Valencia, in Spagna. E ci sono ben 11 team. Tutti contenti, anche i team “poveri” si danno da fare a trovar sponsor, la gente tifa per la barca della propria nazione. Che bella festa! Il circo è pieno di gente, poi qualcuno decide che sia Ribot il cavallo più forte a dirigere l’ippodromo. Ma il cavallo corre, mica dirige e “chi di skipper ferisce, di skipper perisce”, così l’americano del software il signor Oracle, Larry Ellison ammalia il mercenario Ribot/Russel e, con la promessa di lasciargli l’organizzazione totale dell’America’s Cup, i due si impegnano a traghettare la vela nel nuovo millennio, facendo fuori Bertarelli. Una sfida assurda, trimarano contro catamarano nel 2010. Così, con una sfida “ostile” l’ America’s Cup torna negli USA. Da lì con catamarani, foils e altre diavolerie, per poi tornare a monoscafi che alzano e abbassano bracci come Transformers, ci ritroviamo, con alte velocità da preformare in corridoi atti a permettere delle riprese video, tutto sommato solo accettabili. Dicono gli esperti: “Vince chi meglio sa manovrare l’elettronica”. Siamo all’America’s Cup della Play Station. Nelle notti di Luna Rossa potrebbe avvenire un'altra mutazione: o l’affermarsi della volante vela commerciale o, in caso di vittoria del Sir inglese, tutto potrebbe tornare a navigare nell’acqua e non sull’acqua, con la gioia dei velisti, quelli che regatano artisticamente e non solo tecnologicamente a quasi 100 km/ora. La vela di quei miliardari che, insieme ai velisti, ambiscono al sorriso della loro amica Gloria e ad un applauso alla cena della premiazione. Come dicono in Inghilterra, quando la corona passa di mano. “Il re è morto, viva il re”. Comunque, per la prossima America’s Cup, miliardario cercasi. Che sappia estrarre la spada dalla roccia col cuore, più che con o senza l’elettronica, per diventarne re.