Calabria, terra che cambia per rimanere sempre uguale
La mafia ha sempre avuto necessità di surrogarsi ai governi ed alla classe dirigente con responsabilità nella gestione del potere e c’è continuità tra passato e presente, connivenza non interrotta tra mafia e Stato, uomini del Parlamento e del governo, magistratura, polizia e carabinieri.
“La mafia nasce con la questione meridionale che ne è presupposto inscindibile. Non esiste frattura tra vecchia mafia romantica dai nomi misteriosi e romanzeschi che ha solo qualche ambizione di protesta sociale, e nuova mafia delinquenziale aggiornata ai modi del profitto e della rendita dell’economia capitalistica. La mafia ha sempre avuto necessità di surrogarsi ai governi ed alla classe dirigente con responsabilità nella gestione del potere e c’è continuità tra passato e presente, connivenza non interrotta tra mafia e Stato, uomini del Parlamento e del governo, magistratura, polizia e carabinieri. In questi anni abbiamo parlato di ministri, di mammasantissima, di senatori, di picciotti, di onorevoli incappucciati, abbiamo fatto nomi e cognomi ma le nostre interrogazioni sono sempre rimaste senza risposta”
Qualche giorno fa mi è tornato tra le mani questo breve testo tratto dalla relazione presentata del deputato socialista Salvatore Frasca alla conferenza promossa dal Consiglio Regionale della Calabria tra il 10 ed il 12 aprile del 1976. A colpirmi è stata l’attualità di una tematica mai fuori moda. A dire il vero a colpirmi più delle solite questioni morali, sono state le tante assonanze con una serie di letture, alcune di tanto tempo fa, altre un po’ più recenti che mi hanno riportato alla mente un aneddoto. Era il 1997 e mi trovavo con mio padre ad Altomonte, in quell’occasione mi presentarono Costantino Belluscio. Non sapevo ancora chi fosse fino a quando mio padre durante il viaggio di ritorno mi raccontò della sulla sua carriera politica e soprattutto dell’amicizia che lo legava ad un’altra figura, che di certo conoscevamo molto meglio. Il ricordo di quell’incontro mi ha spinto a riprendere in mano alcuni testi che non leggevo da tempo, tornando all’analisi di una figura sulla quale mi sono soffermato a lungo negli anni, nel tentativo di capire quale fosse la verità, alla ricerca di un perché a tanta divisione di pensiero. Ci sono alcune cose che mi vengono in mente se penso alla figura di Don Giovanni Stilo, la prima in assoluto è il suo viso, quello allora sconosciuto che faceva capolino dalla soglia del portone di casa mia, al pari di tanti altri cui i miei occhi da bambino non riuscivano a dare precisa collocazione. La seconda di più recente memoria, sono gli scritti su di lui, quelli controversi che ho voluto riprendere e che più li rileggo più fanno trasparire sentimenti divergenti. E’ proprio vero, la figura di Don Stilo rimane tra quelle più discusse in questa parte di Calabria, rimasta per alcuni versi sempre uguale. Quella del prete di Africo è una figura che unisce idealmente una parte della locride e dell’area grecanica, vicine come sono specie attraverso la via della montagna, ma di sicuro unisce anche queste realtà territoriali al resto della provincia e della regione, incarnando più di tante altre le contraddizioni di una terra dai contorni quasi mai netti, dove mare e montagna coesistono da sempre guardandosi con distacco. Dicevo degli scritti, quelli che ho ripreso da poco, di Costantino Belluscio e Corrado Stajano, l’uno contraltare dell’altro per filosofia di pensiero e chiavi di lettura, il primo mosso nel giudizio da un personale rapporto di amicizia e forse anche dalla convinzione che un solo uomo non possa essere portatore di tutte le storture della società, l’altro invece, sembra catalizzare l’attenzione sulla figura del sacerdote di Africo che diventa icona del male. Stajano non si limita a parlare di un prete padrone, va ben oltre eleggendolo ad anello di congiunzione tra ndrangheta, chiesa, malaffare, politica e pezzi deviati delle istituzioni. È vero, è assai chiacchierato il prete di Africo, la sua figura è accostata per quasi mezzo secolo alla massoneria, alla politica, alla magistratura, ai servizi segreti deviati, alle pagine più scure di una Calabria e di una locride che proprio negli anni di Don Stilo cambia pelle attrezzandosi in vista dei grandi business miliardari, quelli della droga, degli appalti e dei sequestri di persona. Insomma, è facile capire come la carne al fuoco quando si parla di lui sia talmente tanta che ci sarebbe da discutere per giorni, senza peraltro riuscire mai a mettere tutti d’accordo, ecco perché ritengo che la “questione Don Stilo” necessiti di una giusta riflessione. “Mai, dico mai, ho fatto parte del coro di aguzzini, più o meno ispirati, che hanno invaso la strada della libertà precludendone, anche solo con le parole, la disponibilità ai diretti interessati. Sempre, sottolineo sempre, ho creduto nella presunzione di innocenza, mai mi ha appassionato lo sport, purtroppo molto praticato, della colpevolezza decisa a tavolino e trasmessa a mezzo stampa”.
Questo breve frammento è tratto dal lavoro di Belluscio “Il Vangelo secondo Don Stilo” edito da Klipper nel 2009. Belluscio, giornalista con una lunga esperienza da parlamentare dal ‘72 all’87, si è spento nella sua casa romana l’11 febbraio del 2010, neanche due mesi dopo la pubblicazione del lavoro su Don Stilo, quello cui teneva tanto. Anche di Belluscio si chiacchierò tanto, si disse ad esempio della sua appartenenza alla P2, quasi a suggerire un legame occulto che avrebbe mosso la strenua difesa del prete. Ma rileggere le poche righe che ho riproposto tra virgolette è stato come riaccendere la luce su una storia lunga e travagliata, una di quelle a tinte fosche tipiche di un Paese dove le linee di confine sono assai sfumate e spesso facilmente confondibili, storie tutte italiane cui la Calabria non si sottrae affatto, anzi, se possibile ci mette del suo rendendole tristemente originali. Il Vangelo secondo Don Stilo è un titolo che Belluscio aveva voluto fortemente per il suo valore simbolico, per ricordare la figura del sacerdote di Africo protagonista del trasferimento di quella comunità dall’Aspromonte al mare nel 1951, un volume che giunto a trent’anni esatti da quello di Stajano, suona quasi come un estremo tentativo di ristabilire un giusto equilibro in un frangente storico dove le analogie si sprecano proponendo di continuo corsi e ricorsi. Rivisitando in chiave attuale l’essenza dell’uomo e del prete Stilo non solo attraverso le letture ma anche e soprattutto attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto con sentimenti opposti, ad essere sincero non trovo differenze in un copione che si ripete puntuale ogni qualvolta si parla di personaggi che nel bene e nel male hanno segnato un’epoca. Sulla sua figura si è detto di tutto, quasi come se sotto il crocefisso avessero trovato spazio anche tante altre cose, dai grembiuli della massoneria, alle pistole della ‘ndrangheta, dai servizi deviati alle agende della politica nazionale, insomma, più che un prete, un catalizzatore di interessi oscuri. Oggi di Don Stilo, di Belluscio, di Stajano non si parla quasi più, gli anni sembrano avere cancellato con le persone anche i ricordi, quando invece sarebbe bello rivisitare queste figure con occhio più distaccato ed imparziale, forse si capirebbe tanto di questa terra, mutata nei volti ma quasi per niente nella sua essenza. Passando da quei luoghi, dalla vecchia come dalla nuova Africo così come dalla Locride più in generale, osservo un contesto culturalmente quasi immutato. Ripensare oggi a quel viaggio ad Altomonte, alle visite di Don Stilo, alla prima volte che lessi Stajano ed a quanto mi sono interrogato, mi suggerisce come tanti interrogativi, anche a distanza di così tanto tempo, siano ancora senza risposte, dipenderà forse dal fatto che certe domande non hanno sempre una sola risposta, ne hanno tante, buone per ogni occasione, a noi il compito di darci quella che più ci piace.