Il partito che non c'e'
PERCHÈ SERVE ALL’ITALIA
E COME DOVREBBE NASCERE
IL “PARTITO CHE NON C’È”
ISTRUZIONI PER L’USO
Ci vorrebbe il “partito che non c’è”. Mai come in queste settimane ho ricevuto così tante, e qualificate, sollecitazioni a “fare qualcosa” affinché le persone perbene e animate da spirito di cittadinanza, quando non di amor patrio, possano dare un fattivo contributo per evitare all’Italia un destino di penoso o, peggio, di drammatico declino. Non è la prima volta che ciò accade, giacché non è purtroppo la prima volta che il nostro paese attraversa crisi pericolose. Ma rispetto al passato colgo una differenza fondamentale: oggi c’è la consapevolezza che la risposta non può che essere politica, a tutto tondo.
Fino a ieri, infatti, circolava l’idea – un po’ consolatoria, ma soprattutto alibi per evitare un impegno diretto e gravoso nell’agone politico – che ciò che la società civile doveva fare era semplicemente fornire idee e progetti ad un ceto politico che ne era sprovvisto. “Noi produciamo le munizioni intellettuali, i contenuti, che poi loro, che la politica la fanno di mestiere, penseranno a sparare”, diceva la buona borghesia del fare. Era già un passo avanti rispetto al vecchio schema che ha accompagnato la stagione di Mani Pulite – essendone in parte causa ed in parte effetto – con cui si è malamente archiviata la Prima Repubblica, secondo cui i partiti e i politici avrebbero dovuto sparire dalla faccia della terra per lasciar posto ad una tecnocrazia imprenditoriale che avrebbe sostituito le lentezze e cattive posture della politica con le efficienze di chi maneggiava le logiche gestionali delle imprese. Queste pulsioni, fondamentalmente qualunquiste, che negavano la centralità della politica e propugnavano la supremazia di chi era portatore delle cognizioni tecniche, sono state alla base della “discesa in campo” di Berlusconi e dell’avvento dei partiti personali e della preminenza della narrazione mediatica sulle scelte reali, oltre che di una contrapposizione bipolare di tipo “armato” – il Cavaliere da una parte, gli anti-Berlusconi dall’altra – che in parte ha prodotto e in parte non è stata capace di frenare il declino strutturale del Paese.
La crisi del 2008, più pesante che altrove e prolungata per anni, aveva in buona misura reso evidenti i limiti di quell’idea che della politica si poteva fare a meno, aprendo la strada a Mario Monti – ricordiamoci che il suo partito, pur fragilissimo, prese il 10%, mica poco – e al concetto che tecnocrati e politici dovevano cooperare. La fine della crisi da spread e l’irruzione sulla scena di un politico di nuova generazione e apparentemente moderno, perché pur essendo di apparato e non avendo nessun stigma tecnocratico parlava un linguaggio inusuale, diretto e spregiudicato, hanno dato l’illusione a molti che si fosse finalmente voltato pagina. Ma sono bastati pochi anni di errori e di disillusioni per cancellare ogni velleità riformista e di modernizzazione, e per far dilagare nel paese tanto il virus populista del “uno vale uno” e dell’inesperienza come certificazione di verginità politica e morale, tanto quello sovranista del “meglio da soli” che si sono tradotti nelle affermazioni elettorali del 2018 del Movimento 5stelle e della Lega di Salvini. Il combinato disposto tra l’esito sciagurato del governo gialloverde e la palese debolezza di quello attuale – peraltro messi entrambi nelle mani dell’ineffabile “avvocato degli italiani”, una volta populista e l’altra progressista, à la carte – sommati alla forza d’impatto del Covid e delle sue drammatiche conseguenze, ha nuovamente cambiato il sentiment del Paese, inducendo tanto i moderati, quanto i riformisti – che sommati insieme fanno la maggioranza degli italiani, se non assoluta certamente relativa – a preoccuparsi di non avere una classe politica sufficientemente attrezzata per affrontare una sfida che, giustamente, avvertono essere senza precedenti.
Così nel lockdown sono sorte molte iniziative sul web e sono state attivate chat che, come nel caso della mia War Room che ha fatto tesoro dell’esperienza ultradecennale di TerzaRepubblica, hanno formato una vera e propria community di persone desiderose di scambiare idee, condividere documenti, fare analisi, abbozzare proposte. Alcune si sono spente con la fine della costrizione casalinga, altre hanno continuato il loro utilissimo lavoro di divulgazione, ma soprattutto di tessitura di una tela di relazioni e di un ordito di coscienza civica. Ora ci si rende conto che è scoccata l’ora delle scelte storiche, e che occorre fare un passo in più se si vuole poter coltivare fondatamente la speranza di salvare il Paese e noi stessi. Un sentimento, questo, che deriva dalla constatazione di una verità che si è fatta palese per moltissimi, se non per tutti: l’insufficienza di chi ci rappresenta e di chi ci governa.
Era già accaduto, come dicevo, ma questa volta la novità sembra stare nella reazione: non più – o sempre meno – il qualunquistico disinteresse, non fosse altro perché nulla come la pandemia ha mostrato che l’io staccato dal noi non riesce a mettersi al riparo; non più – o sempre meno – il rabbioso mandiamoli tutti a casa in una sorta di “vaffa scaccia vaffa”; non più – o sempre meno – proviamo a dargli delle idee e speriamo che le capiscano e le facciano proprie, pulsione annichilita dalle deludenti esperienze della task force Colao e di tanti altri gruppi di esperti (più o meno tali) che sono stati utilizzati al solo scopo di fare un po’ di marketing (con una o due “t”). No, questa volta la reazione prevalente è: dobbiamo impegnarci direttamente.
Naturalmente nessuno sa bene come fare, da dove partire. Né manca, comprensibilmente, la preoccupazione per i pericoli che in questo paese ancora intriso di giustizialismo può correre chi si dovesse occupare di politica, anche se animato dalle migliori intenzioni. Ci si domanda se sia utile entrare a far parte di soggetti esistenti, dal gruppo della Bonino al partito di Renzi o di Calenda, o se, più ambiziosamente, sia percorribile la strada del fare i federatori di costoro, aiutandoli a superare i loro individualismi e a mettersi insieme. Personalmente rispondo di no a entrambe le ipotesi. Per tre semplici motivi. Il primo: se queste forze, molto personali, sono, o comunque paiono, marginali e poco accreditate nei sondaggi, non sarà certo l’innesto di terzi – che peraltro sarebbe difficoltoso, visto che non risulta siano in cerca di teste pensanti – a cambiarne il destino. Il secondo: in politica le fusioni, ammesso e non concesso che chi si vorrebbe fuso sia disponibile, non hanno mai funzionato. Il terzo: giusto o sbagliato che sia, il mercato politico richiede prodotti nuovi, non il riciclo dei vecchi. Inoltre, credo che sia finalmente tramontata l’epoca dei partiti personali, specie se espressione di ricchezza.
Ecco perché l’unica strada è quella della costruzione del “partito che non c’è”, come da tempo definisco io la forza che manca nel nostro sgangherato sistema politico. Per la verità non ne manca una, ma almeno tre, corrispondenti ad altrettante culture e famiglie politiche europee. Certo, nominalmente, il Pd è nella famiglia socialista e contiene fin dalla nascita una parte importante di cattolici, mentre Forza Italia è nei popolari a Bruxelles e a Roma ama definirsi forza liberaldemocratica. Peccato però che di socialisti nel Pd ce ne siano ben pochi, essendo quasi tutti ex comunisti. E e che gli ex democristiani, per quanto collocati a sinistra nella geografia Dc, avrebbe più senso che fossero nei popolari a compensare le spinte delle componenti cattoliche più a destra. Viceversa, quella creata da Berlusconi resta una forza di populismo temperato al servizio del fondatore, non a caso declinante con lui, che ha poco sia di popolare che di liberale. Ma oggi non ci sono né le condizioni né il tempo per ricostruire le vecchie famiglie delle culture politiche del Novecento. Inoltre, esse andrebbero irrorate di modernità, considerata la rivoluzione copernicana che la tecnologia digitale ci ha imposto. Basterebbe leggere il bellissimo libro “Il verde e il blu. Idee ingenue per migliorare la politica” (Raffaello Cortina Editore) di Luciano Floridi, uno dei massimi esponenti della filosofia contemporanea, che dopo le originali riflessioni sull’infosfera degli anni scorsi ora propone di unire politiche verdi dell’economia green e circolare (non il No alle infrastrutture e il declino infelice dell’ecologismo d’accatto) a quelle blu dell’economia digitale e dell’informazione per riformulare il modello non solo dello sviluppo ma anche della qualità della vita, delle relazioni umane e dei processi sociali. Idee che in Italia ha ripreso Marco Bentivogli, l’unico sindacalista 4.0, talmente moderno da essere stato costretto a lasciare il sindacato. E che so possano essere fatte proprie anche da diversi imprenditori illuminati.
Insomma, vale quanto vado ripetendo da tempo: occorre creare una nuova forza politica che unisca le culture liberale, socialista e popolare, che singolarmente intese non sono più in grado di dare risposte ai problemi complessi del nostro tempo, se non fondendo alcuni valori e principi e saldandoli con il pensiero moderno serio, che affonda le radici nel passato e che non fa del nuovismo e del modernismo di maniera. Una forza che scelga di lasciare fuori dalla porta, restituendole alle coscienze dei singoli, le questioni etiche dividenti, per affermare una frontiera sia della laicità che della fede. Una forza riformista che sia capace di sanare la frattura che si è creata fra libertà e responsabilità, tra la complessità del reale e la sua rappresentazione banalizzata dal populismo politico e mediatico. Una forza che parta dal presupposto che prima vengono le idee e poi le leadership, non viceversa, e che quindi non sia il “partito di tizio” o il “partito di caio”, cui lega indissolubilmente le sue fortune e i suoi rovesci. Una forza che si formi nella società ma che abbia l’ambizione di guidarla, non di esserne la fotocopia. Una forza che si collochi al centro del sistema politico, non perché sia banalmente centrista – termine peraltro ormai consunto oltre che desueto – ma perché vuole attrarre le forze più equilibrate a scapito delle ali di destra e di sinistra, per loro natura più ideologizzate e radicali.
Lo spazio politico c’è, quello elettorale è addirittura una prateria specie se si ha l’ambizione di recuperare al voto coloro che negli ultimi si sono astenuti per scelta e non per disinteresse o qualunquismo. Le condizioni, almeno quelle emotive, ci sono, a giudicare dall’interesse che questo discorso suscita. Si tratta di mettere in moto il processo. E qui viene il difficile. Qualcuno dice: dobbiamo fare il partito di Draghi. A parte che per fare il partito di Draghi prima di tutto ci vuole lui, e che non è una buona idea, in una fase storica dove le vere leadership latitano, bruciare in malo modo la più importante di cui l’Italia disponga. Dunque, lasciamo in pace l’ex presidente della Bce, e semmai proviamo a costruire una forza politica seria che domani possa essergli utile se le circostanze lo indurranno a mettere la sua credibilità, che ha pochi pari al mondo, al servizio del Paese. È dunque una pluralità di altre persone che deve rendersi disponibile e rimboccarsi le maniche.
E vengo a me. Non posso sottacere il fatto di essere oggetto di molti incoraggiamenti a prendere l’iniziativa. E questo non può che farmi piacere, perchè significa che le cose che ho scritto e detto in questi anni hanno lasciato un segno. Sono grato a tutti. Voglio però essere chiaro: se ci saranno sufficienti forze e risorse in campo, non mi sottrarrò all’impegno di essere uno dei collanti che può unire quelle forze e quelle risorse, ma non sarò in prima linea. Gli impegni che ho assunto in campo professionale e l’età me lo impediscono. C’è bisogno di gente giovane, più giovane del sottoscritto. A me, come ad altri, spetta un compito non meno gratificante, quello di ostetrico, che aiuta a far nascere una cosa nuova. Se ci saranno le condizioni, questo lo farò con grande piacere. Lo devo ad un uomo che è stato fondamentale nella mia vita. Si chiamava Ugo La Malfa.
http://www.terzarepubblica.it/
Enrico Cisnetto